Ha un nome accattivante e genera un notevole appeal anche nell’aziende più restie all’innovazione. La sua traiettoria di diffusione nei processi di business è iniziata negli anni Novanta (anche se la genesi del termine è molto più antica), ma il Design Thinking sta vivendo solo ora l’apice della sua notorietà. L’hype prodotto attorno a questo metodo si può tastare sulla base dell’aumento esponenziale degli articoli, dei corsi e degli eventi che gli sono dedicati. L’analisi delle ricerche di questo termine su Google mostra un trend di crescita ininterrotto negli ultimi dieci anni.
Al di là dell’entusiasmo e dell’apprezzamento generati dalle tecniche utilizzate per coinvolgere gli stakeholder, il Design Thinking ha avuto il merito di far capire alle aziende che progettare il design di prodotti e servizi è qualcosa di diverso dal progettare qualcosa di “carino”: è un processo di progettazione basato sulla comprensione degli utenti e delle loro esigenze (ma anche dei vincoli dell’azienda stessa e del mercato in cui opera), con un’ottica tesa al problem solving e all’approccio multidisciplinare.
Cos’è il Design Thinking
Il Design thinking è un processo di design iterativo e strutturato in più fasi che spinge a comprendere l’utente, mettere in discussione le assumption e ridefinire i problemi con l’obiettivo di identificare strategie e soluzioni alternative. Si applica al design di prodotti e servizi e permette di valutare, attraverso il coinvolgimento di professionalità e di componenti diverse all’interno del processo (o dell’azienda), i vincoli esistenti all’interno dell’organizzazione o del mercato stesso. Esistono diverse formulazioni delle fasi del Design thinking, ma quella più diffusa è certamente quella proposta dalla d.school, l’istituto di design dell’università di Stanford.

Il fondatore dell’istituto, David Kelley, ha poi portato avanti questo approccio anche attraverso un’altra sua creatura, l’azienda IDEO, che del Design Thinking ha fatto un vero e proprio paradigma.
I meriti del Design Thinking
Negli ultimi anni “Design thinking” è diventata una sorta di buzzword che ha entusiasmato in molti e ha permesso il moltiplicarsi dei suoi sostenitori. Ma se i suoi detrattori più cattivi lo riducono al “giocare con i post-it”), questo approccio ha sicuramente permesso ai designer di far breccia all’interno di molte aziende che hanno deciso di aprirsi alla business innovation.
Come sottolinea Jared Spool, lo stesso termine “Design thinking” è pleonastico: per chi lavora nel campo, i termini “Design” e “Design thinking” sono probabilmente sovrapponibili, perché il “nuovo” approccio è l’integrazione di varie tecniche, come la Lean UX, la customer journey mapping e il rapid prototyping. Il paradigma del DT ha però rappresentato la chiave di volta per convincere le aziende che il design non ha a che fare solo con il colore o l’aspetto grafico. Si può dire che questo approccio ha permesso alle aziende di capire che l’esperienza utente è un processo e non solo semplicemente un prodotto o un servizio. Inoltre ha permesso a manager e impiegati di avvicinarsi ai bisogni dei loro clienti, di lavorare con un approccio multidisciplinare e teso alla risoluzione di problemi, di percorrere una direzione orientata all’innovazione.
I rischi del “cattivo” Design Thinking
Al netto dei giudizi di chi la giudica una buzzword o – provocatoriamente – “bullshit”, la pratica del Design thinking ne ha mostrato i limiti o alcuni malfunzionamenti. Il DT, nel modo in cui viene visto e praticato in certi frangenti, è eccessivamente centrato sulla fase di ideazione, a scapito di quelle di comprensione degli utenti e di definizione del problema. Il rischio, in questo caso, è che si trasformi in una mera creazione di una parete di post-it. E, su un altro versante, l’esercizio di produzione di nuove idee si scontra spesso con una sottovalutazione del contesto di mercato all’interno del quale un’azienda o un prodotto si muovono.
Un ulteriore rischio da evitare è quello costituito dal fatto che spesso gli stakeholder coinvolti nel processo di progettazione cerchino soluzioni non per l’utente reale ma per quello che hanno in mente. Il Design thinking deve dunque riuscire a porre l’azienda davanti alle esperienze e ai problemi che gli utenti realmente esperiscono usando un servizio o un prodotto. Mettendo a confronto diversi reparti di un’organizzazione questo rischio viene sicuramente mitigato. L’utilizzo di dati e di analisi sulla customer journey può però sicuramente favorire il processo di empatizzazione e di ragionamento attraverso la prospettiva dell’utente.
Spesso viene sottovalutata, inoltre, l’importanza della dimensione iterativa del Design Thinking. Pur essendo scandito da fasi ben definite, il DT è un metodo che non segue un modello strettamente lineare ma spinge a riapplicare quanto imparato per ridefinire i problemi e perfezionare idee e prototipi. Se lo si applica per trovare la migliore soluzione possibile al primo colpo, gli sforzi sono quasi certamente destinati a fallire.
Un mezzo per semplificare il processo creativo e mettere alla prova idee e design
Il Design thinking è un mezzo, non un fine. È una semplificazione di un processo creativo che può rendere comprensibili quei problemi e quelle sfide nella progettazione che spesso appaiono opachi. Come tutti i processi di progettazione è fatto di tentativi, sperimentazioni e valutazioni di ogni idea prodotta. La centralità dei test e dei dati raccolti e un approccio critico in ogni fase del metodo consentono di trasformare le idee in soluzioni efficaci e vincenti.
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